Bordignon, Elena: Things that Happen, and Things that are Done. On Beginnings and Matter 2015

 

Testo di Elena Bordignon

Ancora pochi giorni per vedere la mostra “Things that Happen, and Things that are Done. On Beginnings and Matter” di Petra Feriancova, artista di Bratislava che nel 2013 ha rappresentato la Repubblica della Slovacchia alla 55th Biennale di Venezia con il progetto “Still the Same Place”. Inaugurata lo scorso dicembre alla Fondazione Morra Greco (Napoli), la mostra si sviluppa dall’ampio piano interrato al primo piano in un susseguirsi di suggestioni e allusioni simboliche. L’intero progetto, frutto di lunghe e articolate ricerche, si snoda su continui rimandi tra presente e passato, reale e irreale, tra mitologia e storia antica. Il gioco dicotomico implica anche due concetti basilari su cui l’artista torna molte volte: il sacro e il profano. Questa dualità è sviluppata seguendo il pensiero filosofico dello storico romeno Mircea Eliade (Le sacrè et le profane, 1965), secondo cui le strutture psichiche umane durano in ogni epoca storica e in ogni cultura, e vede una riscoperta del sacro anche nella vita contemporanea. Facendo proprio questo pensiero, Petra Feriancova crea delle ierofanie – o manifestazioni del sacro – strettamente connesse sia alla sua storia biografica che a miti, leggende e riti della più lontana antichità. A guidarci in mostra, una strana topografia fatta di “collage” suggestivi che raccolgono disparati estratti di testi antichi di Anassimando di Mileto, Eraclito di Efeso, Anassagora, Democrito, Zenone di Elea, Ippone di Reggio … solo per citarne alcuni tra i tanti che compongono l’ampio archivio storico-filosofico da cui l’artista ha tratto ispirazione. Tra le tante citazioni, i discorsi che si sommano e si incastrano in una cosmologia che sembra abbracciare lo scibile umano, si racconta dell’ anima come fosse aria, di sensi per capire il mondo, di spazio come contenitore di infiniti mondi, di movimento inconcepibile, di fuoco e umidità, di universo-cosmo come una sfera… argomenti affascinanti con cui la Feriancova cerca di dare forma a pensieri e ragionamenti.

Dal testo di Massimiliano Scuderi che introduce la mostra: “Petra Feriancova è un’artista che riesce ad elaborare gli aspetti autobiografici in modo autentico, fondendoli con altre informazioni che provengono dagli ambiti più disparati, traducendo il tutto in cataloghi, intimi ed universali al contempo, che hanno l’afflato delle narrazioni epiche, quantunque siano frammenti, fragili partiture o situazioni che potremmo definire infra-ordinarie. In questa occasione racconta di miti e di misteri che, nella loro indicibilità, apparentano il tempo dell’uomo contemporaneo all’uomo arcaico. Un’opera che si potrebbe definire civilizzatrice attraverso il rapporto con la materia, con gli elementi naturali e per mezzo dell’atto creativo, del lavoro manuale come atto fondativo.”

In un viaggio ideale, l’artista ci porta, attraverso i tre piani e le tante stanze della Fondazione, a percorrere delle storie fantastiche e al tempo stesso reali, quotidiane, fatte di elementi naturali, rimandi alla sua cultura d’origine, ma anche alla stessa Napoli (mi raccontano che l’artista è stata fortemente impressionata dal fatto che molte persone abitano alle pendici del Vesuvio, nonostante la pericolosità del luogo). A partire dalla prima stanza al piano terra, Feriancova svela, in parte, i suoi riferimenti iconografici, avvolgendoci con centinaia di pagine di riviste e libri scientifici che mostrano terre lontane, costumi sconosciuti, oggetti esotici, ma anche natura selvaggia, animali, etnie e culture disparate. Investiti da stimoli così eterogenei, dimentichiamo che poi, molte delle forme che appaio in questa prima stanza, le ritroveremo anche in seguito, sottoforma di sculture. Da questo archivio antropologico, dove il sapere materiale incontra la conoscenza antropologica, passiamo alla seconda stanza dove, in una quasi totale oscurità, dei frammenti (o resti) di argilla sono appoggiati su un foglio di carta steso sul pavimento. L’unica fonte di luce è la proiezione di un video in bianco e nero, girato in Normal 8mm, destinato ad usurasi ad ogni proiezione. Nel piano interrato, la proiezione di vecchi filmini, montati in ordine casuale, illumina il fondo del grande spazio che accoglie tronchi di alberi provvisti di radici, pelli di animali e un’altra videoproiezione. Inevitabile cercare un filo conduttore delle immagini che scorrono nel video a parete intera, ma ciò che ci rimane è la frustrazione di osservare il vivere quotidiano di persone sconosciute e di cui non sapremo mai la storia. Nella seconda proiezione, invece, un repertorio di video recenti: strade, pioggia, architetture, ponti. Come nella prima stanza introduttiva della mostra, anche in questo caso, l’aspetto aleatorio consente allo spettatore di seguire un proprio, personalissimo, tragitto di conoscenza e interpretazione.

Al primo piano, come fosse un percorso iniziatico, siamo immersi – stanza dopo stanza – nei tanti e complessi mondi creati dall’artista. Il primo ambiente, tra i più enigmatici, ha il pavimento interamente ricoperto di argilla viva che, con il tempo e il calpestio dei visitatori, è stata resa in frantumi. Nell’attraversarla, anche se con precauzione, è inevitabile lasciare il segno del nostro passaggio, corroborato da un impercettibile rumore di sottile strati che si rompono… (inevitabile pensare alla rottura di fragili ossa). In un angolo, innalzato come un totem, una struttura in ferro che sostiene una pelliccia, della conchiglie, un paio di sfere. Bellezza e decadenza, forme ancestrali e resti animali: miti e leggende si intrecciano portandoci dal presente a un affascinante e inesprimibile tempo antico. Nella stanza vicina, un cumolo di sassi di fiume. Ad una visione ravvicinata, ci accorgiamo che in realtà sono dei finti sassi, ricavati dall’argilla che, ancora memore dei gesti compiuti per la lavorazione, sono posti al piano inferiore, nell’ombra. Ecco allora come la Feriancova, sembra svelare, opera dopo opera, il suo modus operandi: fatto di continui rimandi, trasformazioni, ritorni, elaborazioni. Tutto sembra tornare, tutto sembra trasformarsi in un continuo e incessante moto perpetuo. Prendendo a prestito la filosofia dei pluralisti – Empedocle, Anassagora e Democrito – l’artista fa proprio il motto che “nulla si crea e tutto si trasforma”: la materia che forma tutte le cose è da sempre presente nell’universo ed è indistruttibile e non può essere generata e nemmeno distrutta, l’universo è un sistema chiuso, ovvero tutto ciò che l’universo contiene rimane costante, non cresce e non decresce in quantità. Tale materia però cambia aspetto, e quindi muta, perché i suoi elementi semplici e originari si uniscono e si disgregano ogni volta in combinazioni diverse.

Atto combinatorio o semplicemente frutto di rara sensibilità, il lavoro di Feriancova tocca temi complessi e di difficile rappresentazione. Uno su tutti il concetto di anima. L’artista ne rappresenta le sembianze sottoforma di camere d’aria fatte con pelli di animali provvisti di fori (fatti dalle pallottole che hanno ucciso l’animale) in cui l’aria-anima circola “tenendo insieme il corpo del mondo”.

Attraverso una molteplicità di materiali – tantissimi ed eterogenei – l’artista ci racconta anche una lunga storia del “saper fare” (dunque il saper conoscere), e di abilità artigianale: tronchi e pezzi di legno (provenienti dalla sua terra), conchiglie marine, argilla viva, marmi, carta, pelle di animale e di serpente, pietre, vetro, ferro, libri (poetico quello vicino ad finestra con delle noci), pietre marine e oggetti dell’artigianato. Spiccano le decine di calchi di corni e zanne di elefanti decorate come la tecnica dell’incisione a bulino, installati – quasi minacciosi – lungo le pareti di una piccola stanza costruita dentro una sala. Dentro, le zanne, fuori, immagini fotografiche di paesaggi desolati, architetture sfuocate, giardini e maree: sono immagini scattate dall’artista con una macchina fotografica ‘difettosa’. Solo in fase di stampa, si è accorta che la lente presentava un difetto che creava nelle immagini degli aloni.

Oltre, una colonna di carta con stampate le immagini di sassi, a rappresentare la struttura di Tatlin, “della torre costruttivista che, inclinata secondo l’asse di curvatura terrestre, proponeva un sistema semantico e ideologico alternativo a quello modernista e soprattutto la ri-costruzione della società.” L’ultima stanza – costruita a misura dell’artista – è forse quella più intima, più autobiografica. “Nella quarta stanza vengono disposti alcuni “mobili”, sedie e altre strutture dimensionate in base alle caratteristiche del corpo dell’artista, che così si porta al centro dello spazio della rappresentazione, definendone un ordine, un’organizzazione.” Spiega Massimiliano Scuderi nel suo testo. “Una pelle di serpente, segno di una trasformazione, di una mutazione, ci riporta alla definizione del simulacro che proprio Lucrezio da’ nel De Rerum Natura come emanazione tale da conservare la disposizione e l’ordine del corpo solido da cui proviene.”

“Tutto è contenuto in ogni cosa; ovunque ci sono particelle lievi di tutte le cose, di tutte le caratteristiche. Nessuna divisione conduce all’oblio, né alcun tipo di aggiunta o moltiplicazione ci conduce alla pienezza di una unità. Durante il caos originario tutte le particelle erano raggruppate arbitrariamente. Le particelle aderiscono l’una all’altra attraverso la rotazione del gruppo, sotto l’influenza del Nous, l’Intelletto. Gli oggetti e il mondo sono stati creati. Nous è una forma conoscitiva, che porta all’armonia e all’esistenza di oggetti percepibili.”

Anassagora (c. 500 – 428/427 AC)

La mostra PETRA FERIANCOVA. Things that Happen, and Things that are Done. On Beginnings and Matter sarà visitabile fino al 31 gennaio 2015 ed è inserita in Progetto XXI, promosso dalla Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee in collaborazione con la Fondazione Morra Greco.

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